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giovedì 29 maggio 2008

Raffaele Fiore, ex BR a via Fani: 30 anni dopo senza aver imparato nulla (3/3)

"Posso rispondere io qualcosa a questo energumeno qua?" domanda Maria Fida Moro a Claudio Brachino, dopo aver ascoltato l'intervista a Raffaele Fiore.
"Allora, PRIMO: noi siamo all'ergastolo e nessuno ci libererà. SECONDO: non si ride, parlando di queste cose terribili. TERZO: uno può rivendicare quello che gli pare e considerare che il dolore dei familiari delle vittime sia uguale al loro, ma non è uguale per una sola ragione: che loro si sono cacciati volontariamente in questa guerra e noi l'abbiamo subita. Ma io non sono una di quelle che ama la vendetta, però vorrei almeno che questo Paese così diseredato, il nostro, per il quale alle volte comincio a pensare che papà abbia fatto male a morire, cioè che non valesse proprio la pena di morire per questo degrado qua, consente due pesi e due misure che si articolano in tantissime manifestazioni di violenza e di sgarberia ancora adesso nei confronti della memoria di Aldo Moro. Quindi io dico: quand'è che l'Italia si stancherà di ucciderlo? Vuole qualche elenco di cose che succedono? L'Università di Bari che non gli vuole intitolare, alcuni non vogliono che sia dato il nome all'Università del Levante, Aldo Moro. O quelli che fanno la festa per ricordare i 60 anni della Costituzione dimenticano che Aldo Moro era un costituente? [...] Tante, tante cattiverie e sgarberie, violenze, bastoni fra le ruote, una vita impossibile per noi. Alcuni di noi hanno veramente deciso di andarsene: non avranno un trattamento preferenziale come i brigatisti; cionondimeno se ne andranno ugualmente."
E Claudio Martelli conclude, sottolineando come i concetti di Fiore siano stati espressi in "un certo tono, come dire, talmente superficiale da diventare quasi criminale, ancora una volta. Cioè, questa storia viene ridotta, da questo signor Fiore, a un fumetto. Non vedo nulla di drammatico e neanche, diciamo, una consapevolezza, neppure 30 anni dopo."
Che altro aggiungere alle parole piene di sacrosanta amarezza di Maria Fida Moro? E' vero: i familiari delle vere vittime sono condannati all'autentico ergastolo, ad una pena infinita. Loro, gli ex terroristi, hanno perduto la partita, sono stati sconfitti, processati e condannati eppure... eppure si ha l'impressione che siano loro ad aver vinto. In futuro avremo modo di risentire alcune loro dichiarazioni ed analisi (anni '80/'90), quando importanti settori della politica - che durante i 55 giorni del sequestro di Aldo Moro rifiutarono il dialogo coi terroristi - improvvisamente sentirono la necessità di confrontarsi con quegli stessi uomini che uccisero il Presidente della DC e sterminarono la sua scorta.
Paese diseredato ovvero privato dell'eredità... un Paese povero.

martedì 27 maggio 2008

Raffaele Fiore, ex BR a via Fani: 30 anni dopo senza aver imparato nulla (2/3)

Ed eccoci all'agghiacciante intervista all'ex BR Raffaele Fiore, andata in onda su TOP SECRET (Rete 4) il 1° maggio 2008.
"La storia - dice Fiore - si è chiusa da sé, poi ognuno in questa storia ne è uscito in qualche modo, insomma."
L'intervistatrice gli chiede se in lui vi è stata una riflessione od un pentimento. Fiore risponde: "una riflessione, una riflessione critica, non un pentimento."
"Di errori - prosegue Fiore - ne abbiamo fatti, però ci sono anche tante altre cose che riteniamo che erano state fatte in modo giusto..."
Quali?
"E' una riflessione molto più ampia. Il fatto di ribellarsi era la questione giusta, poi come farlo, come mettere in pratica una serie di atteggiamenti, non è... ci son tante altre strade, insomma. Noi avevamo inventato un metodo, insomma, però poi, alla lunga, non ci ha dato le risposte che volevamo. Il fatto di aver scelto quel tipo di strada lo ritenevo allora, adesso, dire adesso non ha alcun senso, però lo ritenevo allora una strada giusta. La lotta armata è una questione molto complessa [risata sommessa], nel senso che non è che si erano messi in conto tutta una serie di cose tra cui 30 anni di galera o l'ergastolo o via discorrendo. [...] io avevo 21 anni, non è che si sta a riflettere su una parola [...]"
Il carcere: "non è un'esperienza da poco, insomma, nel senso che il carcere, in particolare, ti svuota dentro."
L'intervistatrice chiede: ai giovani di oggi cosa si sentirebbe di dire?
"Rispondo con una battuta: non fate i nostri errori, fate le nostre cose giuste."
Altra domanda: ha un rimorso?
"Rimorsi non ne ho perchè li ho fatti [gli atti terroristici] in convinzione [...] ero convinto di quello che stavo facendo."
L'intervistatrice incalza: c'è stata un'azione, un modo di essere per cui lei si critica in modo particolare per il suo ruolo?
"No, di specifico no, se non per il fatto che ero giovane, ero inesperto. Quell'esperienza là l'ho vissuta anche in modo quotidiano, diciamo [...] più d'istinto."
E ancora: se lei pensa ai familiari delle vittime che ci sono state, di Moro e gli altri, la scorta...
"Eh, ma i familiari delle vittime sono come i familiari delle vittime nostre, più che dispiacere, più che provare un rammarico non..."
E' un rammarico o un pentimento? Qui Fiore dà il meglio di sé:
"Ma no, cosa vuol dire pentimento? Cosa vuol dire pentimento? Quando si fanno operazioni di un certo tipo si sa che si finisce col dare anche dei dispiaceri ad altri: la persona che veniva presa era per scardinare quel progetto, non per far del male a lui o alla sua famiglia, insomma, anche se poi avveniva questo."
Basta così, mi pare sia sufficiente. Quello che una trascrizione non può trasmettere è il senso di leggerezza con il quale Raffaele Fiore esprime i suoi concetti, abbozzando persino qualche mezzo sorriso se non sorrisi interi!
Se analizziamo il contenuto delle sue parole (pronunciate in quel modo) ci troviamo di fronte ad un uomo che non ha imparato nulla dal passato, dal suo passato, dalla sua storia. E' incredibile come Fiore non abbia minimamente pensato ad alcuni tra i potenziali telespettatori di TOP SECRET, che quella "storia", come la chiama lui, l'hanno subita in qualità di mogli, figli, figlie, fratelli, sorelle che - in un modo o nell'altro - non potranno mai uscire da quella "storia" perchè una perdita, avvenuta in maniera così tragica, lascia delle ferite che non si chiuderanno mai, specie in un Paese, l'Italia, che ha accantonato le vittime del terrorismo ed i suoi familiari, dando voce pricipalmente, se non esclusivamente, ai terroristi. Soltanto ultimamente le vittime hanno un po' di spazio in libreria e in televisione: forse la loro voce, oggi, non imbarazza più nessuno, alla luce di come è stato risolto, negli anni '90, il confronto tra lo Stato vittorioso e i terroristi sconfitti.
Fiore dice che "non si erano messi in conto tutta una serie di cose tra cui 30 anni di galera o l'ergastolo o via discorrendo [...] io avevo 21 anni, non è che si stia a riflettere su una parola" come "la galera, l'ergastolo o via discorrendo". Egli stesso ammette la sua immaturità ("avevo 21 anni"), quindi l'incapacità di valutare appieno parole pesanti e tangibili come galera, ergastolo. Purtuttavia, i suoi 21 anni, se non gli fecero mettere in conto la galera e l'ergastolo, legittimarono, scientemente, l'attacco al "cuore dello Stato" con conseguente annientamento di vite umane, considerate, in quella stagione, meri simboli da colpire per "scardinare quel progetto".
Sulla equiparazione delle vittime lascio volentieri ogni commento a Maria Fida Moro, nel post successivo. Sul pentimento, invece, desidero riportare le parole di Leonardo Sciascia in "L'Affaire Moro" (pag. 134, edizione Adelphi, 1994). Un augurio, un duro, necessariamente duro augurio rivolto ai giovani terroristi per uscire, dal di dentro, da quella stagione della loro esistenza: "forse ancora oggi il giovane brigatista crede di credere si possa vivere di odio e contro la pietà: ma quel giorno, in quell'adempimento, [riferendosi alla telefonata fatta dalle BR il 9 maggio '78 al prof. Tritto, amico della fam. Moro, con la quale si comunicava, peraltro in tono, scrive Sciascia, "paziente, meticoloso, riguardoso persino", dove trovare il corpo dell'on. Moro, chiamato "onorevole" e "presidente" dallo stesso brigatista al telefono] la pietà è penetrata in lui come il tradimento in una fortezza. E spero che lo devasti." Una devastazione positiva, costruttiva, assolutamente necessaria per ricominciare, per partire dalla propria umanità e da lì ricostruirsi una nuova esistenza. Roberto Fiore, evidentemente, non è stato "devastato" dalla pietà e dal pentimento, e lo ha detto chiaramente nell'intervista: "ma no, cosa vuol dire pentimento?" e lo ripete: "cosa vuol dire pentimento?". Già, cosa vuol dire...
Personalmente mi auguro che, prima o poi, la pietà devasti quest'uomo, che ha fatto poca strada lungo il cammino di revisione della propria esistenza. Se avesse fatto qualche "passo" non avrebbe usato termini tanto impropri, a dir poco riduttivi, quanto "dispiacere" o "rammarico" per i tanti lutti causati dal terrorismo. In studio, a seguire l'intervista, Maria Fida Moro, la figlia di una delle tante vittime di quel terrorismo, e Claudio Martelli, giovane ed autorevole esponente del PSI di allora. Al prossimo post per sentire le reazioni di entrambi.

sabato 24 maggio 2008

Raffaele Fiore, ex BR a via Fani: 30 anni dopo senza aver imparato nulla (1/3)

Il 1° maggio 2008, su "Rete 4" è andato in onda lo speciale TOP SECRET dedicato ad Aldo Moro, condotto da Claudio Brachino, presenti in studio Maria Fida Moro e Claudio Martelli. Prima di questo - per far sì che in questo blog tutto ciò che si riferisce ad Aldo Moro sia facilmente rintracciabile - desidero elencare i post precedenti sullo stesso argomento: 1 post pubblicato il 27 aprile, 5 il 28, uno il 29, un altro il 1° maggio. Ho trovato di estremo interesse la puntata di TOP SECRET, principalmente per una ragione: l'intervista all'ex BR Raffaele Fiore, facente parte del commando che in via Fani, il 16 marzo 1978, massacrò la scorta dell'on. Aldo Moro. Raffaele Fiore fu inoltre responsabile dell'assasinio di Fulvio Croce (presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Procuratori del Tribunale di Torino) e di Carlo Casalegno (vice-direttore de LA STAMPA di Torino). Arrestato nel 1979 e condannato all'ergastolo, dal 1997 è in regime di libertà condizionata. Lavora presso un'associazione nei pressi di Piacenza che dà lavoro agli ex detenuti. Associazione di indubbia utilità sociale in quanto tutti, ripeto tutti, hanno diritto ad una seconda possibilità. Focalizzando l'attenzione sull'ergastolo di Fiore, potremmo dire che il suo, come quello di tutti gli altri brigatisti che sterminarono la scorta, rapirono Aldo Moro e lo ammazzarono, è stato un ergastolo breve, durato 18 anni. Ad un'analisi frettolosa e dominata dall'emotività, 18 anni di carcere, rispetto all'ergastolo, potrebbero risultare una passeggiata ed un insulto ai morti e ai loro familiari. Potrebbero, soltanto se chi è stato condannato all'ergastolo (addirittura a 6, come Mario Moretti, la mente - per quanto ne sappiamo - del sequestro Moro) non abbia dimostrato non tanto un intimo pentimento (a mio avviso basilare per la persona, ma legato ad un discorso interiore, difficilmente verificabile dall'esterno), quanto "una rinuncia al percorso seguito in passato", come ha osservato il difensore di Fiore, avv. Vainer Burani. E, aggiungo io, un totale distacco dal passato attraverso la VERITA', quella che rende LIBERI, realmente, intimamente LIBERI, e questo stato interiore è sì verificabile, attraverso i processi, ma anche grazie alle commissioni parlamentari e alle inchieste giornalistiche. Tutta la VERITA', senza ombre, reticenze, contraddizioni che maleodorano di omertà, coperture, connivenze. Si può anche aver abbandonato la "lotta armata" e vivere una vita normale, prestando la propria opera a favore dei più deboli, ma se - come effettivamente è - sul "caso Moro" i conti non tornano (mi riferisco unicamente al versante brigatista, non ai buchi neri istituzionali) è ovvio che le verità brigatiste non hanno soddisfatto e questo significa che la VERITA' non è tale, in quanto opportunamente dosata, se non adattata per finalità che ancor oggi qualcuno dovrebbe spiegarci, ma che valenti studiosi del caso hanno già abbozzato. Ebbene, se queste due condizioni non si verificano pienamente (totale presa di distanza dalle scelte criminali del passato e totale trasparenza sul personale coinvolgimento in dette scelte), come si può passare - faccio l'esempio di Mario Moretti - da 6 ergastoli ad un permesso di 4 giorni nel gennaio del 1993, dopo appena 12 anni di carcere?! Qualcosa, evidentemente, non quadra... ma avrò modo di ritornare su queste stranezze. Nel caso di Raffaele Fiore, invece, l'ergastolo si è ristretto a 18 anni e, se il suo avvocato la considera una vittoria, personalmente, dopo aver ascoltato l'intervista a Fiore, è difficile, se non impossibile, ravvisare una specchiata "rinuncia al percorso seguito in passato". Sia ben chiaro: Raffaele Fiore ERA un brigatista ed ORA vive in tutt'altro modo. Quindi questa "rinuncia" effettivamente c'è stata, ma le sue parole, i suoi toni, il suo modo di presentarsi di fronte alle telecamere hanno dimostrato una immaturità, una mancanza di sensibilità e di consapevolezza che cozza, sonoramente cozza, con "la rinuncia al percorso seguito in passato". In questo caso l'intimo pentimento, sempre difficile da verificare, è verificabile al 100%: non vi è stato alcun pentimento, né intimo nè superficiale. Nulla di nulla, se non una superficialità agghiacciante, e con essa una mancanza di sensibilità nei confronti di chi ha perduto un padre, un marito, un fratello, un figlio. Nel prossimo post proporrò alcuni passi di quell'intervista che, personalmente, mi ha lasciato un senso di vuoto, rabbia ed infinita tristezza. Tristezza nei confronti di un uomo, Raffaele Fiore, che a distanza di 30 anni dall'accadimento dei fatti, non ha ancora compreso di averli commessi, perlomeno non l'ha compreso la parte più importante di se stesso, quella interiore, quella che ci consente di perderci per poi ritrovarci....

domenica 18 maggio 2008

Tragedia piccolo borghese di fine anni '50...



Questa tragedia coniugale dell'Italia piccolo borghese (tragedia che si snoda fra Milano ed una borgata di Ferrara), magistralmente abbozzata da Sam Carcano per la "Settimana Incom" del 26 aprile 1958, potrebbe essere il soggetto per un dramma diretto da Camillo Mastrocinque oppure una storia degna dei più intensi feuilleton di fine Ottocento (ed oltre), ma il giornalista la accosta, a ragione, all'opera cinematografica di Michelangelo Antonioni. Personalmente leggendo queste pagine ho rivisto e rivissuto le atmosfere ed il finale tragico de "Il Grido", di Antonioni appunto, del 1957 con il grande attore americano Steve Cochran e Alida Valli. L'invito è alla lettura di questa triste fine di un amore e di due vite in un'ottica che conduca il lettore oltre la dimensione privata, prestando attenzione allo stile, ai toni, al lessico, alle immagini (in questo caso le foto dei due protagonisti). I drammi non hanno età, ma è il modo di descriverli che cambia. Un'analoga tragedia nel 1968-70 (gli anni che abbiamo trattattato nei numerosi post precedenti) sarebbe stata affrontata, giornalisticamente parlando, in tutt'altro stile... così come i protagonisti (ritratti nelle due foto) avrebbero avuto altri abiti, altre pose, altre facce, altre acconciature... e una storia è il composto di tanti particolari che la rendono unica, sempre.

sabato 17 maggio 2008

Vacanze contestate

Questa risposta del direttore della "Domenica del Corriere" (numero del 1° luglio 1969) ad un molto probabile giovane lettore presenta, con condivisibile pragmatismo - condivisibile almeno per il sottoscritto -, gli aspetti positivi della "società dei consumi" senza per questo negare i rischi, i pericoli di una simile società (ved. anche i miei 3 post del 01 maggio). Se negli anni '50 - specie negli USA - si prospettava "la tendenza alla saturazione della domanda", nel decennio successivo e per tutti gli anni '70, si diffonderà sempre più "la religione dello spreco", grazie proprio alla società del benessere. L'affermazione del direttore di aver conosciuto il mare a 10 anni è un'affermazione che ho sentito in molte persone oggi settantenni e oltre, genitori compresi. Con gli anni '60 - almeno nelle zone più industrializzate del Paese, questo è un discorso generale - molte coppie appena sposate passavano dalle vecchie abitazioni dei genitori coi "cessi sul balcone" al bagno in casa (per i miei questa è stata una rivoluzione!), alla "tivi" non più vista al bar o da quello del secondo o terzo piano, ma una "tivi" tutta per te, così come il frigo, il frullatore e tante altre piccole e grandi cose che il benessere ha portato nelle case degli italiani, compresa la possibilità di mandare i figli a scuola...

venerdì 16 maggio 2008

Estate italiana, il decennio è finito (2/2)

Questa ingenua carrellata di fotografie balneari vorrebbe farci entrare nella vacanza tipo di due "impiegatine di Monaco di Baviera", tali Jùtta e Angelica, piacenti ragazze alla scoperta del bel Paese, tampinate, baccagliate - diremmo oggi - dal maschio italiano in cerca di avventure. Anche se le immagini si riferiscono al 1970 (infatti foto e didascalie sono tratte dalla "Domenica del Corriere" del 14 luglio 1970) trovo che richiamino alla mente i clichè degli anni '60 esenti da contestazioni, '68, hippy e quant'altro. C'è quindi una sensibile differenza tra il post precedente e l'attuale, anche se praticamente contemporanei. Questo è il chiaro esempio di come un'epoca - ogni epoca - sia complessa, presenti inevitabili contraddizioni, contrapposizioni, manifestazioni diversamente partecipate. Ed è anche il chiaro esempio di come le immagini debbano essere sempre contestualizzate, rese ancor più fotografiche dalle parole e da altre immagini, contrarie e contemporanee, al fine di sentire il vero polso di qualsiasi stagione.
Questi giovani non contestano, anzi! Sono, come recita una delle didascalie, un "gruppetto di pappagalli" interessato ad approfondire la conoscenza delle due ragazze, con grande apprensione delle mamme lasciate in Germania. Facce, dunque, di una stessa medaglia, che ci offrono - nello specifico di queste simpatiche fotografie - differenti stili per approcciarsi all'estate, tempo in cui, contestazione o meno, la ricerca del piacere accomuna un po' tutti.

Estate italiana, il decennio è finito (1/2)

Istantanee di un'estate italiana di fine decennio (dalla "Domenica del Corriere" del 26 agosto 1969): gli anni '60 iconografici, quelli di Gianni Morandi, Rita Pavone, Edoardo Vianello - tanto per fare alcuni nomi amati dai coetanei di questi artisti - sono già distanti da questa estate in perfetto stile "figli dei fiori", con netti richiami americaneggianti. Basti pensare al festival musicale di Monterey del 1967 e al mitico Festival di Woodstock, avvenuto appena 10 giorni prima - 15, 16, 17 agosto - a Bethel, nella contea di Sullivan, NY; non soltanto un concerto, ma un evento culturale e sociale per i giovani che vi presero parte e per tutti quelli che, quasi per un effetto domino, nel mondo occidentale ne rimasero affascinati quasi fosse un simbolo onirico di libertà, liberazione... un sogno, una visione sociale indefinita, puntellata da parole, atteggiamenti, policromatici scollamenti dalla realtà privi di autentica progettualità. Diversi films italiani di quell'epoca ci consentono, ancor oggi, di percepire questi aspetti. A questo proposito si consiglia la consultazione della sezione "recensioni" del bel sito: http://www.caniarrabbiati.it/
E per contestualizzare, e portare su un piano reale, il cosiddetto concerto di Woodstock, suggerisco la seguente lettura: http://digilander.libero.it/oldiesclub/pegleg/

Ma quanto mangiavamo?

Una tabella interessante, tratta dalla "Domenica del Corriere" del 14 luglio 1970, che ci mostra come con "il miglioramento del tenore di vita" abbia dirottato gli italiani sulle paste ed i biscotti "a scapito del pane"...

mercoledì 14 maggio 2008

1969 (e oggi): gli italiani di fronte a Dio


Questo articolo firmato da Indro Montanelli per la "Domenica del Corriere" del 10 giugno 1969 porta, ahimè, molto bene i suoi 40 anni. E' un articolo forte, che sento - per certi aspetti della Chiesa d'oggi, che frequento - attuale, seppur oggi non si possa certamente parlare di una Chiesa autoritaria che governa le coscienze italiane nonché di una "disabitudine" del cattolico italiano di fronte a quello che Montanelli chiama "il problema di Dio", problema nel senso di tema basilare, fondamentale per la vita di un essere umano che sente la presenza del Creatore attorno a sé. Oggi all'interno della Chiesa si discute, ci si confronta su tutto, senza mezzi termini, senza falsi ed ipocriti pudori. La Chiesa alla quale mi riferisco è quella che amo definire "di base", quella di certe parrocchie, di certi conventi, di certi centri di spiritualità, dove si lavora per l'uomo e la donna in un clima di carità, di amore. Tuttavia - qui il pezzo di Montanelli entra in gioco - il problema del "fedele" che frequenta la Chiesa quasi fosse un automatismo è ancor oggi attuale, così come è presente quello spirito di contestazione spesso acritico, non ragionato, strumentale, per fini politici, che svuota le menti dalle idee per riempirle di demagogia, populismo e quant'altro. La colonna conclusiva dello scritto di Montanelli esprime una denuncia che un cattolico pensante non può non riconoscere nella sua autentica gravità. Grave perchè vera. Sto parlando della devozione formale, il cancro della fede, specie se questo formalismo viene autorizzato, formalizzato dall'Alto, invece d'esser combattuto con un'opera di educazione - lunga quanto una, due generazioni - a quell'intima partecipazione che già c'è nella Chiesa "di base", ma che si scontra troppo spesso con la devozione formale che generalmente ha un peso mediatico che mai la Chiesa "di base" riuscirebbe a conquistare in una società dell'immagine come quella odierna. Un esempio? Esistono realtà di dialogo, confronto ed incontro, preghiera, deserto, semplice relax (se vuoi preghi, se non vuoi non preghi, ma stai realmente con te stesso) sparse in lungo ed in largo per l'Italia. Un luogo fra i tanti, che il sottoscritto frequenta: Il Cenacolo, gestito dalla Suore del Cenacolo, ai piedi della collina torinese, nell'affascinante piazza Gozzano. Un luogo per i "tempi forti dello Spirito", percorsi collettivi e individuali, approfondimenti (di alto profilo, sguardo al cielo e piedi ben saldi a terra) della parola di Dio così come dei temi che costituiscono la vita di ogni giorno e che il cristiano sente di voler e dover vivere in un certo modo. Quanti luoghi simili sono sparsi lungo tutto il territorio nazionale? Quanto spazio hanno nel mondo che esiste, quello visibile dei media? Quanto sappiamo delle conferenze proposte, ad esempio, dagli Istituti di filosofia domenicani su argomenti di alto profilo come "L'anima e le neuroscienze", "L'anima e lo Psicoterapeuta"? E ancora: gli incontri ecumenici (molti cristiani non sanno neppure cos'è l'ecumenismo), gestiti dalla Chiesa "di base", in questo caso dalle Chiese "di base", cattoliche, protestanti e ortodosse. A parte l'ecumenismo dei piani alti, come vive il cattolico l'incontro con i fratelli protestanti? Com'è sponsorizzato l'ecumenismo nelle parrocchie? In questo caso, anche "la base" cattolica pecca, stenta a decollare... siamo ancora troppo chiusi nel nostro recinto cattolico e non di rado da qualche sacerdote (e da qualche pastore) si levano commenti non certo ecumenici! E la ragione sta proprio nell'atavico formalismo, prodotto della "disabitudine" ad una fede matura, ben poco partecipata. Ma ciò che maggiormente mi ha colpito leggendo il pezzo di Montanelli è quel richiamo alla devozione formale, quasi fosse un suono fastidioso e persistente che non vuole proprio andarsene. Una devozione ottusa che tende a vanificare quelle belle, grandi, utili iniziative di cui sopra. Devozione che, personalmente, trovo irritante. Devozione che puzza di idolatria ed ignoranza. Devozione che tutte le televisioni del mondo hanno ripreso in quel calderone di fede e idolatria che è la "venerazione delle spoglie di san Pio da Pietrelcina". Sia ben inteso: non discuto l'uomo e il santo, tutt'altro: lui, Padre Pio, non è in discussione! Dico che l'epoca delle salme esposte in vetrina dovrebbe finalmente terminare! Ma chi ha bisogno di vedere il corpo di don Bosco (con atti di idolatria non rari che il sottoscritto ha visto, abitando a Torino), o sapere che un pezzetto di cervello del grande santo piemontese risiede nel santuario di colle don Bosco (un pezzetto di cervello... incredibile!)? Chi ha bisogno di queste cose?
Leggo nel sito della "rivista dei frati minori cappuccini di san Giovanni Rotondo" (http://www.vocedipadrepio.com/):
"... L’amore verso il nostro santo Confratello non poteva tenerci ancora inerti di fronte alla necessità di verificare le condizioni del sepolcro e lo stato del corpo e di procedere a un idoneo trattamento, come avviene per tutti gli altri beati e santi. I fatti e il parere dei periti, poi, ci hanno dato ragione. La fedeltà alla tradizione della Chiesa non ci consentiva di continuare a lasciare un Santo sepolto sotto terra..."
Trovo queste affermazioni sconcertanti. Esiste una "tradizione" in questo senso? Ebbene, questa tradizione, oggi, è da superare, da archiviare senza vergogna, ma con la forza di chi sa andare avanti, sfoltendo e scremando la fede da ciò che non serve, che è inutile, come esporre un cadavere, anche illustre, anche santo, ma sempre cadavere, cosa morta e sepolta. Ma dico, e lo dico col massimo rispetto: a chi importa dello stato del cadavere di questo o quel santo? Ciò che conta, ed è solo questo che conta, è la sua opera, il suo insegnamento, ciò che ha lasciato in termini di umanità e fede. Esistono due santi, due grandi santi laici (non solo gli unici, ma per brevità citerò solo questi): i giudici Falcone e Borsellino. Loro non hanno bisogno dell'esposizione delle povere salme straziate. Loro hanno lasciato un'impronta nella società civile che li eleva, automaticamente, agli altari della santità, anche se non facevano parte della Chiesa. Loro hanno dato la vita per il Prossimo, come ha fatto Gesù per ognuno di noi. Loro, Falcone e Borsellino, non vengono esposti al pubblico, grazie a Dio (e speriamo che a nessuno passi per l'anticamera del cervello una simile idea, a dir poco infelice). Ho visto, nei vari TG, frati, suore, religiosi in coda a vedere il povero santo (dico "povero" con grande affetto e rispetto per quel corpo che non contiene più l'anima che lo ha reso grande) e, giunti di fronte alla salma, prodigarsi con digitali e telefonini per scattare la foto ricordo, quella che ti consentirà di dire, fra vent'anni: "io c'ero"... demoralizzante, veder fare cose simili a uomini e donne di Chiesa. Quante persone, della fiumana presente al cospetto della salma, hanno mai letto, studiato la vita di padre Pio? Quante persone hanno mai letto una sua biografia? Ben poche...
Io so per certo che all'interno della Chiesa "di base" molti sono imbestialiti (e non esagero) di fronte a questa parata idolatrica. E sono imbestialiti al pensiero che i piani Alti abbiano autorizzato tutto ciò. Com'è possibile essere così miopi? La risposta sta nella Chiesa Alta, nella sua incapacità a selezionare ciò che è fondamentale da ciò che è coreografico e che per secoli è stato ammesso e consentito. Operazioni simili non si possono fare in un giorno o in un anno, ci vogliono anni, se non generazioni, al fine di sradicare dal cattolico quelgi usi & costumi che allontanano dal dialogo, dal confronto, dalla passione per quel grande mistero che è Dio e con Lui tutti gli uomini e le donne che hanno vissuto su questa Terra e che ci seguiranno. Ma come - chiedo a chi vorrà rispondermi - iniziare questo processo di crescita nella vera fede, quando i piani Alti sono ancora così legati a schemi preistorici?

lunedì 12 maggio 2008

Il '68 e la base cattolica: un documento importante.


Alcuni brani tratti da un documento di sensibile rilevanza per i giovani cattolici del tempo (1967), "elemento di saldatura tra la coscienza cattolica e le idee di sinistra" (da "68 vent'anni dopo - una storia aperta", "L'Espresso", 25 gennaio 1988).
Suggerisco di leggere con attenzione quanto scritto dalla "Fondazione Don Milani" per seguire, passo dopo passo, la genesi di un documento di grande forza ed impatto, un "canto di fede nella scuola" come mai era stato scritto.
"La lettera fu consegnata alle stampe nel maggio 1967 - è scritto nel sito della Fondazione - Don Lorenzo moriva un mese dopo. Quindi non ha goduto tutto il baccano che il libro ha sollevato. E di baccano ne ha sollevato e tanto. Con le sue novità, con le sue accuse, coi suoi argomenti stringenti, precisi, documentati, con le sue proposte e il suo linguaggio semplice ha saputo dire a tutti verità che molti intuivano, ma che pochi riuscivano ad esprimere". Buona lettura:

L'altra "faccia" del '68: il Concilio Vaticano II...


Prosegue il viaggio nel '68 diverso, meno conosciuto, ma non per questo di serie B, per pochi intimi, relegato alle sole sacrestie. (articolo tratto da "Focus Storia", nr. 8, giugno-luglio 2006)

Il 68 "sconosciuto"...





I luoghi comuni sono il veleno della Storia, maschere deformanti cucite addosso, considerazioni acritiche elevate a Verità. Un po' come il '68, di esclusiva proprietà della sinistra. E invece non è esattamente così. Questo breve articolo pubblicato su "Panorama" il 24 gennaio 1988 ci offre un quadro inerente la "comunità del dissenso cattolico". Insomma, detto in soldoni, il '68 cattolico...

1969-1970: anche le vignette ci avvertono che qualcosa sta cambiando... (2/2)


Semplici barzellette, ma anch'esse rivelano un cambiamento di costume. Suggerisco di leggerle tutte, in particolare quelle segnalate con tratto rosso.


1969-1970: anche le vignette ci avvertono che qualcosa sta cambiando... (1/2)


Queste vignette, ricavate da settimanali pubblicati tra il 1969 e il 1970, sono in grado di veicolare - pur senza chiedere troppo, in termini di analisi, ad una banalissima vignetta umoristica - aspetti, immagini, reazioni, perplessità proprie di quegli anni.

domenica 11 maggio 2008

Oggettistica da "museo"


Nel post precedente accennavo all'oggettistica. Ecco, direttamente dai settimanali del 1969/70, una carrellata esemplificativa che riuscirà certamente a strappare qualche sorriso, ma che vale più di mille parole!

Oggetti da collezione (design fine anni '60)

Questa pagina tratta da "Focus Storia" (nr. 8, giugno-luglio 2006) riaccende in me ricordi ormai sopiti sugli oggetti (qui ne sono ritratti alcuni) impensabili fino a un decennio prima. Il boom dei consumi consentì alla fantasia di sbizzarrirsi, producendo oggetti utili o futili, ma entrambi coloratissimi. Malgrado fossi un bambino, riaffiorano alla mente particolari che, osservati con gli occhi e le abitudini odierne, fanno sorridere. Ricordo l'uso diffuso (eccessivamente diffuso) della plastica, colori pastello... ma non solo, anche la ceramica sottostava a queste regole cromatiche: piatti, caraffe e quant'altro. Per non parlare dei divani, della tappezzeria (a fiorelloni!), degli abiti, dell'oggettistica in genere.

mercoledì 7 maggio 2008

Gli anni '60 - età del benessere?


Questa succinta ma efficace panoramica sulla trasformazioni in atto nei "ruggenti anni '60" (tratta da "Panorama" del 24/01/1988), unitamente ai post precedenti e successivi, nonchè alle considerazioni espresse da Pier Paolo Pasolini e riportate nel post del 1° maggio, ci consente di comprendere con maggiore chiarezza - senza l'influsso di distorcenti nostalgie - i radicali cambiamenti sociali e culturali di quel fondamentale decennio, che proiettarono il nostro Paese verso la modernità, generando inevitabili tensioni e divisioni, ancor oggi in grado di accendere gli animi, poichè questioni universali, senza tempo, legate alla concezione della morale, della vita e della morte. Se la fine degli anni '60, attraverso la "contestazione giovanile" (fenomeno di portata mondiale) "spezzò inesorabilmente la catena fra i giovani e la famiglia" - non più considerata quale "unico punto di riferimento, fisso, monolitico" - i decenni a seguire acuiranno sempre più questo distacco, tanto che la famiglia, oggi, deve, inevitabilmente, fare i conti - e condividere il ruolo che le dovrebbe spettare per diritto naturale - con numerosi altri educatori, spesso insidiosi, ammalianti, ricchi di un vuoto in grado di veicolare il nulla travestito da cool, presenzialismo, spirito libero, alternativo, tendenza...

Gli anni '60-inizio '70 in cifre


Come preannunciato nel post precedente, propongo una serie di tabelle comparative che mostrano "gli effetti del miracolo economico e le trasformazioni della società italiana tra il 1960 e il 1970, visti dalla statistica", tratte dalla rivista "Focus Storia", n°8, giugno-luglio 2006.

martedì 6 maggio 2008

La tecnologia a portata di mano

La tendenza, come accennato nel post precedente, tipica delle economie caratterizzate da un alto livello di benessere, e alla fine degli anni '60/inizio '70 questo benessere - malgrado il boom economico fosse ormai un lontano ricordo - era tangibile (ferie di massa, aumenti degli abbonamenti TV, raddoppio dei consumi di energia, aumento della vendita di automobili e moticiclette, ecc.), condusse gli italiani - attraverso un rafforzamento delle tecniche pubblicitarie - a un uso accelerato di beni anche non necessari, i quali vengono proposti e assunti come simbolo di prestigio sociale. Vien da sé che questi beni, alla fine, diventeranno necessari e non tutti, ovviamente, rappresenteranno - e rappresentano - il superfluo travestito da necessario, proprio in funzione del progresso tecnologico che, in se stesso, è un bene. La bella ragazza qui ritratta (pubblicità del 1969-70) pubblicizza una super batteria che consentirà - ad esempio - di ascoltare più a lungo le musicassette e i 45 giri nonché aumentare la durata dei giocattoli elettrici dei bambini (robotini, carro armati, ecc.). E' una foto esemplificativa di quanta tecnologia a portata di mano fosse già disponibile allora, grazie al miglioramento delle condizioni di vita di una larga fetta della popolazione italiana, ed i post successivi ci forniranno alcuni dati piuttosto interessanti, polso di un'epoca a dir poco complessa.

giovedì 1 maggio 2008

E adesso... la pubblicità (3/3) ... e Pasolini, cosa ne pensa?


Quando vedo e penso alla pubblicità, sempre più capillare, insidiosa, una sorta di vero e proprio condizionamento mentale, uno stimolatore dei nostri più disparati e superflui desideri (ma cosa è veramente utile ed inutile, quando l'uno si sovrappone all'altro?), quando vedo tutto ciò penso a Pier Paolo Pasolini (1922-1975), un uomo che, personalmente, non ho mai identificato come soggetto politico (seppur fosse di sinistra, ma una voce fuori dal coro, un indipendente, non amato dall'establishment del PCI di allora), bensì una forte, indispensabile presenza nella società italiana degli anni '60-'70. Pier Paolo Pasolini era, innanzi a tutto, un poeta, un poeta civile, alla ricerca del vero, del vero intrinseco. Un uomo che guarda, osserva, studia ed intellettualmente contesta.
"Un autore - si confessa di fronte alle telecamere - quando è disinteressato e appassionato, è sempre una contestazione vivente. Appena apre bocca contesta qualcosa, al conformismo, a ciò che è ufficiale, a ciò che è statale, a ciò che è nazionale, a ciò che, insomma, va bene per tutti. Quindi, non appena apre bocca, un’artista è per forza impegnato, perché il suo aprir bocca è scandaloso, sempre."
Pasolini sa. Sa perchè osserva, perchè studia, perchè è il suo mestiere, quello dell'intellettuale, nel senso più alto, più nobile (nobiltà umana) del termine.
E così anche la pubblicità - apparentemente banale e, perchè no, persino utile - luccicante manovalanza di un sistema immarcescibile, impone alla nostra mente delle considerazioni, ahimè vane, ma io credo nella consapevolezza, malgrado tutto, malgrado il risultato finale.
“Il regime - disse Pasolini, sempre utilizzando il mezzo televisivo - è un regime democratico, eccetera, eccetera, però quella aculturazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, invece riesce a ottenere perfettamente, distruggendo le varie realtà particolari, e questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che, in fondo, non ce ne siamo resi conto. E’ avvenuto tutto in questi ultimi 5, 6, 7, 10 anni. E’ stato una specie di incubo in cui abbiam visto l’Italia intorno a noi distruggersi e sparire. Adesso, risvegliandoci, forse, da quest’incubo e guardandoci intorno ci accorgiamo che non c’è più niente da fare.”
Pasolini, quasi 40 anni fa, ha visto giusto, sentito giusto. Quello che non è riuscito a fare il fascismo, il nazismo e il socialismo reale (irrigimentazione e omologazione a lungo termine) è riuscito a farlo il capitalismo, all'interno del regime democratico. Se, sintetizzando, possiamo definire il capitalismo il "sistema economico-sociale la cui caratteristica principale risiede nella proprietà privata dei mezzi di produzione, e nella conseguente separazione tra classe dei capitalisti e classe dei lavoratori", il consumismo altri non è che "la tendenza, tipica delle economie caratterizzate da un alto livello di benessere, e rafforzata dalle tecniche pubblicitarie, a un uso accelerato di beni anche non necessari, i quali vengono proposti e assunti come simbolo di prestigio sociale." Ogni commento ed ogni contestualizzazione storica (relativa alle pubblicità di 40 anni fa come a quelle di oggi) è superfluo, come superfluo risulta ripetere e sottolineare, ma voglio essere superfluo, che il consumismo altri non è che il braccio armato del capitalismo... e tutti, davvero tutti, ci siamo arresi, e Pasolini l'aveva capito, e previsto: "adesso, risvegliandoci, forse, da quest’incubo e guardandoci intorno ci accorgiamo che non c’è più niente da fare.”

E adesso... la pubblicità (2/3)



Altra pubblicità, altre emozioni, altra nostalgia di chi è stato bambino a quei tempi, primi '70...